domenica 6 gennaio 2013

Maurizio Lodi. Come sono diventato fotografo


Anche per Maurizio Lodi l’incontro con una scuola è stato il momento decisivo che ha permesso di trasformare un “grande desiderio di arte” in un percorso preciso e consapevole verso la fotografia. Un percorso che ha avuto il suo momento topico quando Maurizio ha detto a se stesso: “Devo provarci e basta”. Ecco il suo racconto. 



Maurizio Lodi, Primo autoritratto



Con niente in mano
Dopo stagioni di impegno politico, ventisettenne, mi trovavo alla fine degli anni ’80 con un lavoro di fattorino e senza saper fare niente. Niente in mano, se non un vago piacere ad esprimermi nel disegno e nella musica. Avevo un grande desiderio di arte, di cui mi ero nutrito, ma che era stato messo in crisi dalla cultura del materialismo, anche se dialettico, di quegli anni. Fino ad allora la fotografia, e la mia Nikon FM, avevano documentato le vacanze.


Il primo passo
Collaborando ad una radio politica avevo conosciuto uno studente di fotografia dell'Umanitaria [oggi CFP Bauer, Ndr]. Avevo l'impressione che lui stesse costruendo un suo futuro e così quando decisi di imparare un mestiere, di andare a studiare, fra cinema e fotografia scelsi l'Istituto Europeo di Design, diretto da Martino Schiera.


Tre cose mi convinsero: l'impostazione professionale, la disponibilità di attrezzature e l'esistenza, dato che di giorno lavoravo, di un corso serale dalla retta sopportabile. In programma nel corso, c’era la fotografia di still life. Molta tecnica e parecchia pratica, e gli insegnanti particolarmente appassionati: Carlo Scillieri per la ripresa, Claudio Scarano per la teoria, Pierluigi Portner in camera oscura. Sono grato a queste persone per l'entusiasmo che seppero trasmettermi. Grazie a loro diventare fotografo era possibile anche per un fattorino che si pagava gli studi e che aveva solo letto il manuale di Andreas Feininger. Tutto mi veniva facile e ripresi il gusto di fare immagini perché le progettavo e perché sapevo che a qualcosa sarebbero servite. Il passaggio da "diapo" a "dia", la crescita da foto-amatore a foto-grafo è proprio questo: passare dalle decine di scatoline zeppe di diapo polverose alle dieci immagini in un anno, per il mio portfolio.


In marcia verso la professione
Il corso serale venne ripetuto l'anno seguente: mi iscrissi e lo seguii, e alla scuola venne richiesta una persona  che seguisse gli esordi di una azienda commerciale che stava nascendo. Da impiegato di segreteria in azienda, per l'interessamento dell'amico che aveva studiato all'Umanitaria, ora assistente fotografo, ero passato a lavorare in una camera oscura, dove, con un ingranditore Durst enorme, stampavo pellicole al tratto per farne impianti serigrafici. Da lì sarei poi andato a vendere attrezzatura fotografica professionale ai fotografi professionisti, con la Manfrotto Trading. La mia marcia verso la professione progrediva.


Da fattorino avevo avuto un incidente in automobile al quale ero scampato quasi indenne e quando, a tre anni di distanza, mi arrivarono i soldi dell'invalidità che avevo contratto, sapevo come spenderli. Martino Schiera mi portò alla Fatif e comperai il banco ottico, il cavalletto, due lenti Rodenstock, degli chassis, tre luci Ianiro e tre stativi: il mio studio. Di basso profilo, forse, ma perfettamente in grado di lavorare.


Devo provarci
Intanto alla Manfrotto Trading, assistendo Arnaldo Calanca, conobbi e toccai con mano tutto quello di cui un fotografo aveva bisogno. Il lavoro era molto intenso e non lasciava troppo spazio alle speranze professionali, per cui, quando fui cotto a puntino, impazzii. Non so spiegare come decisi e che tipo di presunzione mi prese: dovevo provarci e basta. Fu complice un clima di entusiasmo che si era creato nel corso: quasi tutti diventammo fotografi. Con Franco, con cui vivevo e condividevo una cantina-studio, avevamo un confronto artistico e tecnico serrato; ad Adriano promisi di fare uno studio associato; con Gianni, che aveva i flash, condivisi il mio primo lavoro, ed il mio studio lo chiamai Ubik, da un romanzo di Philip Dick, appena letto.


Come una troupe del National Geographic
Quando mi licenziai da Manfrotto passai tre mesi a chiamare al telefono possibili clienti e quando arrivai alle ultime diecimila lire ebbi la fortuna di ottenere un colloquio da Farmitalia Carlo Erba. Le mie foto piacquero e il lavoro fu mio: dovevo illustrare la relazione di bilancio della più grande azienda farmaceutica italiana con un reportage sugli impianti di Nerviano. L'anno prima Mario De Biasi con la sua Leica si era aggirato per gli stabilimenti ed il suo cachet probabilmente era stato all'altezza della sua fama e bravura. Io e Gianni Pucci arrivammo con due generatori, quattro torce, cavalletti, gelatine colorate, banco ottico e pellicole piane. Era una follia forse, ma sembravamo, al confronto, una troupe del National Geographic, e il nostro lavoro centrò le aspettative del cliente. E in più, con la qualità del grande formato.


Oggi
Cinque anni dopo ricomparve nella mia vita Franco Pizzocchero, lo studente dell'Umanitaria e non escludo che i miei tentativi di emularlo sono forse stati alla base di questo mio percorso. Con lui condivisi lo studio ed é ancora grazie a lui che mi sono occupato di alimentazione, che é diventata la mia specializzazione.


Maurizio Lodi, Brasato

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